5.2. - IPOTESI SUL FUTURO
- Le piattaforme
in arrivo: banda larga e video online, Internet mobile
La velocità di caricamento dei contenuti pubblicati online
è destinata ad aumentare vistosamente e con continuità
nel tempo. Tutta l’attenzione che in passato si è dedicata
alla produzione di pagine leggere sarà in futuro dimenticata.
E sostituita dal gusto. Per arrivare si spera comunque
a pagine leggere. Ma non per motivi strettamente tecnici,
quanto per effetto di una cultura che Internet sembra
privilegiare: la parola sull’immagine, la ricerca attiva
sulla ricezione passiva.
Contemporaneamente, la banda di accesso in mobilità
è destinata ad aumentare. Ma i due fenomeni convergeranno
solo se ci sarà anche una ridefinizione del ruolo degli
operatori mobili: dovranno capire che la diffusione
dell’uso della loro tecnologia sarà tanto maggiore quanto
più lasceranno libera la pubblicazione anche sulla rete
mobile. Oggi, non è certo vietata: ma è talmente penalizzata
che i consumatori quasi non riescono a capire come accedere
ai contenuti che non sono strettamente quelli proposti
dagli operatori.
Sta di fatto che una fioritura di nuovi terminali in
grado di soddisfare tutte le esigenze ergonomiche e
pratiche dell’accesso, in chiave mobile e fissa, con
architetture formate da piccole reti personali di oggetti
dedicati, con meno fili e più performance, è una prospettiva
estremamente realistica. Le interfaccia saranno vocali
e testuali, i costi saranno elevati o limitati, i display
saranno giganteschi o piccolissimi...
Inutile andare troppo oltre. La proiezione della tecnologia
nel futuro è sempre difficile. Ma un fatto è certo:
la connettività aumenterà e aumenterà la varietà e comodità
degli strumenti di accesso. Dunque per i giornali digitali
le prospettive sono sempre più interessanti.
Anche perché le nuove piattaforme saranno costruite
in modo da garantire anche un sistema di pagamenti per
i contenuti. Modellato sul sistema dei contenuti accessibili
con le reti mobili. In sostanza, si potrebbe immaginare
di avere la modalità radio-televisiva come una sorta
di vetrina veloce di un servizio di informazione mobile
istantaneo e leggero e, contemporaneamente, di un servizio
fisso ricchissimo di contenuti. Come già oggi, in effetti,
avviene in alcuni casi particolarmente avanzati (basti
pensare alla Cnn).
Non ci sarà dunque alcuna sparizione di media. Ci sarà
piuttosto una relazione sempre più stretta tra i diversi
media, intesi come canali di accesso alle competenze
di redazioni sempre meno legate al linguaggio specifico
di un medium ma sempre più orientate a coltivare la
loro competenza tematica e la loro credibilità.
- Il nuovo giornalismo online
«Nella società dell’informazione conta di più il denaro
o l’informazione?» è la domanda di «Panorama» a Bill
Gates, leader della Microsoft. Che risponde, non senza
una, per lui, inconsueta esitazione: «Il denaro è una
forma di informazione». Risposta corretta anche se piuttosto
tecnica. Per essere più originale, avrebbe potuto pure
dire il contrario: «L’informazione è il nuovo denaro».
In ogni caso, appare chiaro che Gates di questo genere
di informazioni ne ha più dei giornalisti.
Ma se l’informazione si muove come il denaro, il suo
valore si muove come la borsa. L’audience dei servizi
giornalistici trasmessi in tv, la quantità di clic sui
pezzi pubblicati online, appaiono come una misura immediata
del peso dei loro autori e dei contenitori che li ospitano.
E le notizie di agenzia che fluiscono sui terminali
dei trader delle grandi banche tendono a influire direttamente,
immediatamente, sui movimenti dei titoli quotati, finendo
col diventare denaro e non solo un suo analogo.
Eppure, l’immediatezza potrebbe diventare la principale
causa di crisi del giornalismo tradizionale. L’ipotesi
è troppo forte? Forse. Ma l’immediatezza è potente quanto
ambigua: è l’annullamento del tempo che intercorre tra
un fatto e il suo racconto, ma è contemporaneamente
la riduzione del ruolo del mediatore. Il filmato del
secondo aereo che si abbatte sul World Trade Center
di New York, trasmesso in diretta in tutto il mondo
è una notizia gigantesca ma il suo autore ha un ruolo
più di operatore che di mediatore. Con tutto il rispetto,
non è troppo diverso dal servizio che fa l’occhio elettronico
di una webcam puntata sull’angolo della strada, e costantemente
connessa a Internet, che per caso intercetta un fatto
come il mitico «uomo che morde un cane».
Conseguenza diretta: nella diffusione dirompente dell’immediatezza
c’è l’origine del cosiddetto «information overload»,
il sovraccarico di informazioni che investe la società
e le singole persone e che trasforma le notizie in commodity.
Perché tanto meno c’è mediazione tanto meno c’è selezione.
In queste condizioni, si trasmette tutto il presente
che si riesce a registrare. Il singolo pezzo perde valore.
E ne acquista casomai il contenitore, o meglio l’interfaccia,
il brand e la quantità di utenti del contenitore. Questo
causa qualche disequilibrio.
Un tempo la definizione di giornali e giornalisti erano
tautologiche. Erano giornali quei prodotti vagamente
periodici che erano fatti da giornalisti. Ed erano giornalisti
coloro che facevano i giornali. L’informazione, con
una evidente forzatura del linguaggio comune, tendeva
a coincidere con il servizio reso dai giornali. Il ruolo
di editori e giornalisti era quello di operare una mediazione
tra fonti dell’informazione e pubblico. Certo, la realtà
si incaricava spesso di mettere in discussione la teoria:
per le commistioni di interessi di molti proprietari
delle case editrici e per la vaghezza deontologica di
molti aspetti del mestiere giornalistico. Ma almeno
la retorica era semplice. Il cronista racconta i fatti,
si diceva. I più sottili dicevano che li interpreta.
I più critici dicevano che li crea. In ogni caso, il
ruolo delle persone era riconoscibile. Oggi lo è solo
quello dei personaggi.
La questione si è fatta più complessa. L’informazione
è diventata la materia prima dell’economia della conoscenza.
Nuovi editori, nuovi ruoli per gli editori tradizionali,
nuovi diritti d’autore, nuovi sistemi di accesso, nuova
pubblicità: il sistema è sottoposto a sollecitazioni
dirompenti. Molti sembrano pensare che l’informazione
sia una faccenda troppo importante per lasciarla in
mano ai giornalisti. I quali peraltro hanno difficoltà
crescenti a tenere in mano quel pubblico che, solo in
Italia, ormai passa 150 milioni di minuti al giorno
a consultare Internet, seguendo percorsi mediati da
macchine, directory e persone di molti mestieri diversi.
Finita la tautologia giornali, giornalismo, giornalisti,
la storia dei contenitori e dei mezzi si è separata
da quella dei singoli produttori di contenuti e dei
singoli brani di contenuto. Così il giornalismo appare
ormai una pratica in cerca di una nuova teoria. E i
giornalisti sono artigiani alla ricerca della propria
arte.
- Contenitori e contenuti
I contenitori sono stati sottoposti a sollecitazioni
straordinarie dall’avvento dei nuovi media digitali
e interattivi. Rapidamente si sono susseguite, in parte
sovrapponendosi, tre fasi: la scoperta, sulla scorta
dei pensatori dell’avanguardia digitale; l’esaltazione,
con il tema del denaro speculativo a farla da padrone;
lo scoppio, con una depressione esagerata quanto l’euforia
precedente.
All’inizio del boom, dunque, tra il 1994 e il 1997,
l’impatto delle avanguardie internettiane è stato fortissimo.
I newsgroup e le bacheche elettroniche facevano pensare
all’informazione autogestita, nella quale il pubblico
e i produttori di contenuti si confondevano, per rigenerarsi
in comunità di interessi. Il browser gratuito dell’allora
studente universitario Marc Andreessen, che si è diffuso
sulla Rete come un virus perché rendeva molto facile
leggere gli ipertesti scritti, altrettanto facilmente,
nel non esoterico linguaggio html, faceva pensare al
crollo delle barriere economiche alla pubblicazione,
sollecitando l’ipotesi di una disintermediazione dell’editoria
e una relazione più diretta tra autori e pubblico. Le
guide e i motori di ricerca, come Yahoo! e Altavista,
aprivano la strada dei portali, contenitori completamente
nuovi, proiettati a rispondere in modo personalizzato
all’«information overload».
I modelli di business inventati per supportare queste
novità, sulla base dell’ipotesi di una crescita esponenziale
di qualunque dato quantitativo connesso alla Rete si
sono presto trasformati in grandi pregiudizi positivi,
alimentando un consenso assoluto sull’idea del loro
destino di successo: questo ha reindirizzato velocemente
(troppo velocemente) molte iniziative internettiane
dalla vendita di servizi alla vendita di azioni in borsa,
con la conseguenza, descritta mille volte, della Grande
Bolla.
Lungi dall’avere effetti meramente finanziari, lo scoppio
della Bolla ha annullato in pochi mesi una enorme quantità
di piani di business, quindi di investimenti e posti
di lavoro. Cosicché nell’immaginario collettivo Internet
è stata identificata con un fenomeno futile e dannoso
come la speculazione finanziaria. A sopravvivere sono
stati in generale i progetti di riorganizzazione interna
dei grandi gruppi che erano nati con una logica più
lontana dalla speculazione, oltre ai pochi nuovi soggetti
economici che avevano trovato un chiaro successo di
mercato su Internet e che magari avevano fatto in tempo
a finanziarsi in borsa.
Nel corso di sette anni si è così passati dall’esaltazione
di poche minoranze, all’euforia di massa, alla stanchezza
generalizzata sul tema. Con il ritorno in minoranza
degli innovatori.
Questi peraltro continuano a lavorare. E non cessano
di vivere a un ritmo estremamente veloce. Perché le
tecnologie delle quali hanno fatto i loro strumenti
non smettono di cambiare e trasformarsi, aprendo continuamente
nuovi fronti competitivi. A spingere sull’acceleratore
dell’innovazione per i contenitori, oggi, sono i temi
della sicurezza, del “content management”, della gestione
integrata di progetti di marketing complessi, dell’integrazione
di contenuti e software applicativo, della privacy,
della banda larga, dell’integrazione tra accesso fisso
e mobile, della nuova pubblicità, e così via. In sintesi,
la tecnologia continua a proporre nuove opportunità,
genera nuovi problemi, invita a nuovi investimenti:
e sottolinea la possibilità di integrare nuovi linguaggi.
Ma se i contenitori sono frutto di idee imprenditoriali,
hanno un impatto decisivo sulla pratica del giornalismo.
Perché questo non è che l’interpretazione quotidiana
di quelli. E se l’immediatezza è diventata una parte
integrante del linguaggio giornalistico, mettendolo
in parte in crisi, la velocità di mutazione dei contenitori
ha contribuito a far esplodere i parametri di riferimento
del lavoro di chi fa informazione.
Il primo problema di una teoria del giornalismo, in
effetti, è come muta la percezione del tempo. Del resto,
la prima domanda del giornalista è sempre stata: quando?
Ebbene: da quanto si è detto, si deduce che la funzione
di questa domanda sta cambiando. Ma ci si deve domandare
se questo avviene in modo corretto. O per lo meno se
sta avvenendo in modo comprensibile. L’idea che l’immediatezza
dell’informazione sia un valore sistematico del giornalismo
va presa criticamente: è vero che il servizio giornalistico
deve attrezzarsi per accelerare costantemente il suo
prodotto se è vero che la realtà sulla quale informa,
a sua volta, accelera. Ma è maggiormente vero che, più
che la realtà, ciò che accelera è la percezione della
realtà. E la struttura dei contenitori influisce pesantemente
sulla percezione della realtà.
Il ritmo del mezzo ha un’influenza sulla percezione
del ritmo del referente del messaggio. Come dire: se
il giornale deve uscire e non ho una notizia sull’argomento
che interessa, è meglio costruire una notizia piuttosto
che lasciare un vuoto. Il che fa parte del mestiere.
Ma nel passare da ritmi quotidiani a ritmi più incalzanti
il fenomeno punta, appunto, all’immediatezza con la
conseguenza della crisi della mediazione giornalistica
e l’esaltazione della mediazione dei contenitori. Con
una variante anche più insinuante: la mediazione del
contenitore si può incarnare in una persona che diventa
personaggio e la cui funzione è quella di interpretare
il contenitore diventandone il simbolo sintetico. A
quel punto, paradossalmente, è raggiunto il massimo
della deresponsabilizzazione dell’individuo.
Già la diretta televisiva aveva impostato la questione
in termini di immediatezza: più definibile come servizio
nel caso della trasmissione di una partita, meno facilmente
definibile in altri casi, più votati alla costruzione
di notizie, come i talk show che non raccontano ma determinano
dibattiti, per esempio politici, altrimenti inesistenti.
Ma il boom di Internet ha introdotto un nuovo motivo
di accelerazione della velocità percepita: perché la
Rete ha tolto di mezzo il racconto del reale organizzato
intorno a un palinsesto lineare tipico della televisione,
sostituendolo con un menu di fenomeni simultanei.
Ma se questo fenomeno proseguisse senza correzioni,
le conseguenze sul mestiere dei giornalisti sarebbero
importanti. E in parte si possono già vedere nei fatti:
giornali senza giornalisti, come i notiziari dei portali,
con un pubblico più numeroso dei giornali fatti da professionisti;
giornalisti che si trasformano, assorbendo sempre di
più ruoli operativi; giornalisti mutati in personaggi
che leggono un copione scritto da sceneggiatori non
necessariamente dotati di esperienza giornalistica,
fino a personaggi che più semplicemente interpretano
un ruolo che assomiglia a quello dei giornalisti assorbendone
le funzioni dal lato della relazione con il pubblico
senza minimamente influire sul lato della relazione
con le fonti.
- Nuovi ruoli per i giornalisti?
Ma il destino dei giornalisti non è necessariamente
quello di subire il dominio dei contenitori. Non è una
regola, ma a fare la differenza dal punto di vista qualitativo
nei nuovi contenitori informativi è stato molto spesso
il contributo di persone con un’esperienza da giornalisti:
a KataWeb, a Tiscali, a Virgilio, a Msn, a CiaoWeb,
e così via. Intendiamoci, i giornalisti non hanno certo
potuto salvare imprese nate male a causa di culture
aziendali sbagliate, ma in generale hanno portato un
valore editoriale chiaramente riconoscibile ai servizi.
La responsabilità di chi fa questo mestiere è quella
di rendersene conto: capire quali sono i reali punti
di forza del mestiere da valorizzare e trovare la strada
per influenzare i fenomeni mediatici.
Ma ci vuole un progetto. E si devono vedere le strade
per realizzarlo.
Le ipotesi di soluzione che si intravedono in proposito
sono due: 1. Il ruolo giornalistico si estende, abbraccia
compiti che un tempo si potevano definire tipici dei
tecnici, dei tipografi, degli ingegneri, dei consulenti
d’azienda e dei progettisti di modelli di business contenutistici;
2. Il ruolo giornalistico si precisa, alla ricerca di
un’identità professionale che le sollecitazioni strutturali
tendono costantemente a mettere in crisi. Entrambe le
ipotesi sono realistiche. E probabilmente entrambe possono
verificarsi.
L’estensione del mestiere dei giornalisti è nei fatti.
E visto che la logica dei contenitori assume una importanza
crescente, visto che già oggi alcuni giornalisti hanno
dimostrato di poter contribuire alla costruzione dei
contenitori, allora tanto vale occuparsene con una teoria
forte. La mediologia che si va sviluppando ai confini
tra storia e antropologia appare in proposito una disciplina
da seguire. Ma se ci fosse solo questo fenomeno, però,
l’identità professionale sarebbe destinata a sparire
in brevissimo tempo.
Partecipare alla progettazione dei contenitori, dei
flussi logici della comunicazione, della gestione dell’informazione,
del rapporto tra linguaggio, target e mezzo di trasmissione,
fa parte del futuro del giornalismo. Come, certamente,
ne fa parte l’osservazione delle trasformazioni che
agitano gli editori tradizionali, la nascita di nuovi
editori e la presa di coscienza della dimensione mediatica
di qualunque attività imprenditoriale. E tenere d’occhio
la nuova pubblicità, impossibile da cacciare indietro,
e a sua volta costretta a inseguire le tradizionali
tecniche intrusive ma anche a ricercare nuove soluzioni
per inserirsi (o insinuarsi) nei luoghi dell’informazione
interattiva. Capire, infine, quali sono i meccanismi
per cui i prodotti giornalistici vengono trattati da
commodity quasi senza valore e da pagare una miseria,
e quali sono le strade per valorizzarli e garantire
pagamenti decenti per i contenuti che li meritano.
Insomma, interrogarsi sull’identità dei giornalisti,
man mano che queste nuove dimensioni della professione
andranno avanti, diventerà sempre più necessario. Perché
la complessità, crescente, è il lato buono della confusione.
Compito non facile, quell’interrogarsi. Non abituale
per chi fa un mestiere che predilige la pratica alla
teoria. Le risposte tradizionali, in effetti, non sono
tutte completamente giuste. Il giornalista è il testimone
dei fatti? Ma questa funzione tenderà fatalmente a concentrarsi
nelle agenzie, giganti mondiali in grado di fare economie
di scala nella distribuzione e commercializzazione,
mentre i pochi grandi giornalisti continueranno a firmare
i loro pezzi straordinari, eccezioni destinate a non
diventare mai la regola. Il giornalista è il messaggero?
Può darsi, ma lo è insieme a mille altre categorie che
parlano pubblicamente, supportate dalla moltiplicazione
dei media e delle funzioni mediatiche dei prodotti e
dei servizi. Il giornalista è mediatore tra fonti e
pubblico, è interprete, scopritore e semplificatore
di fenomeni complessi? È un ruolo che si trasforma con
la trasformazione dei fenomeni stessi.
Come cogliere in tutto questo la strada per definire
meglio l’identità professionale dei giornalisti? Di
sicuro, nessun contratto potrà regolare queste mutazioni
senza tentare di fermarle. Ci vuole di più di un contratto:
se è vero che “content is king”, è anche vero che la
Rete è ormai, finalmente, una Repubblica. E non oligarchica.
Dunque, forse, ci vuole una carta costituzionale.
Ma questa non arriverà presto. E nel frattempo il bisogno
di un’identità si farà sempre più urgente.
Allora, in mancanza di una Costituzione dei giornalisti,
in grado di accompagnare le trasformazioni cui la categoria
da anni fa fronte quasi preparandosi ad affrontare cambiamenti
ancor più drastici, si può tentare un’ipotesi di identità,
intuita più che definita.
Ebbene, partiamo ancora dal confronto con il passato.
Un tempo, i flussi di notizie scorrevano come un fiume
la cui sorgente, i cui argini e il cui sbocco al mare
erano quasi completamente sotto il controllo di giornalisti.
Oggi le notizie sono un diluvio, il territorio ne è
sommerso, i giornalisti non controllano nulla. Al massimo
raccolgono brani di un fenomeno gigantesco. Ma hanno
una pratica. E questa pratica è diventata una scuola.
E questo elemento innegabile è parte dell’identità
del giornalista. È uno che ha fatto una scuola, un apprendistato,
specializzandosi nel trattamento dell’informazione.
È giusto dire che ci vuole più formazione giornalistica.
Ma è ancora più giusto studiare e valorizzare la qualità
formativa della pratica giornalistica. Se la prassi
delle grandi organizzazioni ha ormai compreso che esiste
una funzione di marketing e una di comunicazione, in
futuro deve comprendere che esiste una funzione mediatica:
capace di tenere insieme le qualità mediatica intrinseca
in ogni prodotto, la semplicità dei messaggi, l’interesse
del pubblico. E nei giornali, nelle grandi aziende editoriali,
riconoscere questo indispensabile elemento formativo
dell’attività giornalistica può diventare una nuova
prassi della cosiddetta gestione delle risorse umane:
un recupero, modernizzato, del rapporto tra esperto
e apprendista tipico di quando il giornalismo era ancora
artigiano. Si tratta potenzialmente di un forte fattore
motivazionale. Soprattutto se aprisse la strada, accennata
poc’anzi, di una serie di mestieri non necessariamente
legati alla fattura di giornali (concetto il cui significato
si va, appunto, confondendo).
Internet, in tutto questo, sarà il fenomeno decisivo.
Di Internet si è parlato molto come di un nuovo medium.
Non abbastanza come piattaforma che gestisce l’elemento
mediatico di ogni prodotto e servizio. Sulla scorta
dei suggerimenti di Tom Siebel, se ne parla sempre più
spesso come di supporto per l’organizzazione di una
relazione multicanale con il pubblico. Il fondatore
della Siebel, leader nelle soluzioni software per l’e-business,
sostiene che pur essendo innegabile il ruolo di Internet
come medium, le sue potenzialità sono molto più rilevanti
se lo si considera come uno strumento per aprire le
aziende (editoriali e non) alla relazione con il pubblico
in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti gli orari
che fanno comodo al pubblico stesso. Perseguendo questo
scopo, però, la relazione tra azienda e pubblico viene
incanalata attraverso uno strumento che, mentre “serve”
, comunica e ascolta. Una banca che adotti la filosofia
di Siebel, per esempio, usa Internet per aprire i suoi
sportelli virtuali 24 ore su 24 e senza limiti di localizzazione
e per supportare l’attività delle filiali fisiche con
attività operative o di marketing: ma nello scegliere
la Rete per tutto questo finisce con l’aumentare notevolmente
l’interazione con i clienti attraverso un mezzo di comunicazione.
Questo significa che l’attività editoriale, o mediatica,
della banca aumenta in maniera importante. Insomma:
Internet non è solo un nuovo medium, ma è anche la piattaforma
per la mediatizzazione di qualsiasi attività che implichi
una relazione tra un’organizzazione e un pubblico.
I suoi effetti futuri non sono ancora chiaramente percepibili:
anche perché la Rete è una realtà che cambia costantemente
e i suoi nodi si moltiplicano e si trasformano ogni
minuto. Dal punto di vista tecnologico, ovviamente,
ma anche sotto il profilo della capacità di produrre
significati, di creare nuovi linguaggi, di cambiare
le abitudini di accesso del pubblico all’informazione.
Non si è ancora stabilizzato il fenomeno di Internet
via personal computer e già si apre il tema dell’accesso
con un telefonino o con un palmare. In attesa di veri
navigatori per auto in grado di collegarsi alla Rete
con un interfaccia vocale. E di strumenti futuribili
come la carta digitale e i computer da indossare. L’accelerazione
dei tempi sembra già profonda, ma la simultaneità dei
contenuti ne moltiplica l’effetto sulla percezione del
tempo. A sua volta moltiplicata dalla contemporaneità
di diverse dimensioni della comunicazione: da uno a
molti, da uno a uno, da pochi a pochi, da molti a molti,
e così via.
La complessità è destinata ad aumentare. Chi ha fatto
quel mestiere-scuola che chiamiamo giornalismo ha contribuito
ad alimentarla. L’”information overload” è anche una
sua responsabilità. Ma può diventare il nuovo terreno
del suo ruolo sociale. Una nuova forma di mediazione,
intellettuale, impossibile da sostituire con software
per la personalizzazione dell’accesso all’informazione.
Perché questa è priva di un contenuto interpretativo.
In tutto questo c’è uno stimolo straordinario alla
creatività. E al ripensamento delle forme e degli strumenti
del giornalismo. Se quella di Internet fosse davvero
una rivoluzione, il suo slogan un po’ francesizzante
potrebbe essere: libertà, velocità, comunità. Ma ogni
rivoluzione ha bisogno dei suoi intellettuali. Altrimenti
è solo una rivolta.
Una conclusione non può che essere una sorta di rimando
a un necessario approfondimento su ciascuno dei tre
elementi di questo slogan. Forse “velocità” è il più
urgente: se “libertà” e “comunità” sono parole che la
storia ha ingombrato di ambiguità lasciandole peraltro
dense di significati positivi, “velocità” ha assunto
connotati alternativamente accettabili e insostenibili.
Accettabili, persino affascinanti, nei periodi in cui
prevale il modernismo, l’estetica della macchina e il
mito del progresso, insostenibili quando le circostanze
invitano a riflettere. Il tema della “velocità” non
è altro che quello del tempo e della molteplicità dei
suoi ritmi. A tale molteplicità si deve adeguare un
giornalismo che voglia essere completo. Solo così esso
può estendere la propria capacità di raccontare: sia
ciò che accade in un lampo e va registrato subito, sia
di ciò che dura a lungo e va assorbito con calma. Un
giornalismo che subisse solo il ritmo breve finirebbe
con il perdere la propria funzione. E in tutto questo
Internet, per struttura, è uno strumento utilissimo:
perché il tempo di Internet non è né veloce né lento.
È simultaneo. Come la realtà.
- Il tempo obbligatorio dei mass media. E l’effetto
strutturale di Internet.
«Quando?»: dovrebbe essere una delle domande chiave
del giornalismo. Ma lo è soprattutto per il pubblico.
Il tempo, per i giornalisti, è quasi sempre una variabile
esogena, stabilita dal contenitore: di solito sono i
pezzi (e i fatti) che si adeguano alla periodicità e
alla tecnologia del giornale. Il contrario è molto più
raro e, non a caso, va sotto il nome adrenalinico di
«edizione straordinaria».
Tradizionalmente, le conseguenze di questa circostanza
sono state tutt’altro che irrilevanti. La gerarchia
delle notizie, primo strumento interpretativo dei direttori
dei giornali, è sempre stata diversa a seconda della
periodicità dei loro «prodotti». La diffusione delle
notizie, poi, è stata subordinata all’uscita dei giornali:
uno scoop si teneva segreto fino alla pubblicazione
se non si voleva favorire la concorrenza. E proprio
la periodicità stringente dei giornali è stata spesso
considerata una sorta di scusante per le imprecisioni
che anche le migliori redazioni si lasciavano scappare.
I commenti alle dirette televisive, del resto, tanto
difficili da realizzare in modo corretto dal punto di
vista informativo e linguistico proprio per la loro
contemporaneità all’evento, talvolta sono sembrati indirizzati
ad abbandonare il giornalismo per rasentare l’intrattenimento.
La stessa vita quotidiana dei giornalisti era scandita
dalla necessità produttive del loro giornale. Di sicuro
si esagera ipotizzando che, come c’è un parallelismo
tra il sistema della produzione industriale e i mass
media, così ci sia dunque un collegamento tra la catena
di montaggio e il modo di lavorare dei giornalisti per
i grandi media di massa. È pur vero peraltro che si
tratta di un’esagerazione comunque tanto diffusa da
aver indotto a chiamare «macchina» la parte del lavoro
giornalistico più ispirata al taylorismo. Ma al di là
di queste visioni estreme, nei giornali tradizionali
resta tuttavia, apparentemente insanabile, il conflitto
latente tra l’agenda della produzione e quella della
ricerca giornalistica. E per ora chiaramente non bastano
le soluzioni pragmatiche come la specializzazione di
alcuni, soprattutto lavoratori dipendenti, sull’agenda
della produzione e la trasformazione in freelance di
coloro che si interessano prevalentemente alla ricerca
giornalistica (essendo questi ultimi comunque relativamente
difficili da gestire per le redazioni tradizionali e
gli uffici del personale dei loro editori).
Insomma: sebbene il compito primario dei giornali sia
quello di riportare i fatti, non sono i tempi dei fatti
a scandire il ritmo e neppure i tempi della scoperta
dei fatti. A guidare sono i tempi della produzione dei
giornali. Certo, per imporre un’agenda ai fatti, per
influire sulla visione del tempo nella comunità di riferimento,
i giornali hanno potuto fare ricorso a molti «trucchi
del mestiere» dagli editoriali ai reportage, mentre
le televisioni hanno creato i talk show condotti da
giornalisti che invece di limitarsi a raccontare i fatti
si spingevano a crearli. Si è formato così un «tempo
virtuale», autoreferenziale, prodotto dal sistema dei
media. Il che rafforza (bisogna pur ripeterlo benché
sia persino antipaticamente ovvio) l’impressione che
il tempo dei servizi giornalistici non sia stato determinato
né dai fatti né dalle scoperte dei giornalisti: ma,
appunto, dai contenitori e dalle dinamiche che guidano
chi li dirige.
Tutto questo non è un fenomeno necessario né tantomeno
eterno. Anzi, si direbbe che il modello possa essere
messo in crisi dalla trasformazione del sistema dei
media che, di fatto, sta avvenendo soprattutto attorno
alla digitalizzazione dei sistemi produttivi e distributivi.
Internet, tv satellitare, tv digitale terrestre, Adsl,
fibra ottica, Gprs, webcam, weblog, e così via possono
avere un impatto tecnicamente ed economicamente diverso
da quello immaginato qualche anno fa dagli integralisti
della convergenza, ma sono indubbiamente fenomeni destinati
a modificare in profondità gli strumenti del giornalismo:
nei tempi della produzione, della distribuzione, della
scoperta dei fatti e del loro racconto. Chiedersi in
che direzione possa andare questa trasformazione per
poterla magari progettare e guidare è un compito arduo
ma ineludibile. Perché i rischi sono enormi quanto le
opportunità.
Le opportunità sono essenzialmente sintetizzabili in
una liberazione del tempo dei giornalisti dalla periodicità,
soprattutto perché il loro lavoro si scioglie nel costante
presente della Rete e, quindi, nella possibilità di
una maggiore armonia tra il servizio giornalistico e
la dinamica dei fatti sociali. I rischi si possono riassumere
nella accelerazione e virtualizzazione del tempo giornalistico
fino alla sua trasformazione in puro spettacolo, disintermediato
o iperintermediato, con una tendenza alla sua completa
commercializzazione e alla perdita di spirito di servizio
del giornalismo tradizionale. È evidente che opportunità
e rischi convivono. E sta a chi fa i giornali la scelta
della direzione. Il passaggio chiave è in una più matura
interpretazione di Internet: non più solo un nuovo medium
che si aggiunge agli altri (o li minaccia), ma anche
e soprattutto uno strumento prezioso per riorganizzare
il processo produttivo dei giornali e la relazione tra
le fonti, i giornalisti esterni, le redazioni e il pubblico.
Il tutto coltivando una cultura del servizio giornalistico
costantemente innovativa.
- La dinamica del tempo nei nuovi media. Velocità contro
libertà?
Le opportunità e i rischi dell’impatto di Internet,
in quanto medium, sul tempo del mestiere giornalistico
sono sintetizzabili nell’opposizione tra chi considera
determinante lo strumento e chi ritiene decisivo il
progetto di chi lo utilizza. Nei due casi, la percezione
del tempo risulta profondamente alterata.
Se ci si concentra sulla dinamica dello strumento,
cioè sulla tecnologia, prevale chiaramente l’idea che
tutto sia dominato da un ritmo serratissimo. Il tempo
nella Rete infatti, come osserva il sociologo Manuel
Castells, appare tanto compresso che tutto il sistema
che ruota intorno a Internet sembra vivere in un incontenibile
eccesso di velocità. In molti casi appare addirittura
condannato all’accelerazione continua: un’impressione
avvalorata dalla vasta popolarità della legge di Moore,
quella che prevede la crescita esponenziale della capacità
di elaborazione dei computer, doppiata dalla legge di
Metcalfe, che definisce la crescita esponenziale del
valore economico e comunicativo della Rete. La velocità,
poi, diventa in breve tempo fretta come dimostrano biblioteche
di libri dai titoli dedicati all’affannosa vita della
Rete: due classici del genere, godibilissimi, sono Burn
Rate di Michael Wolff (1998) e The power of now di Vivek
Ranadivé (1999), che esordisce affermando: «La velocità
è Dio, il tempo è il diavolo e il cambiamento è l’unica
costante». Ma è Castells che nella sua monumentale The
Information Age: Economy, Society and Culture dà del
fenomeno la sua descrizione più nota: la velocità dell’innovazione
tecnologica rende obbligatorio far arrivare al mercato
la novità prima che lo faccia qualcun altro, perché
si ritiene che nella Rete chi arriva primo schiacci
gli avversari e dunque che i veloci battano la concorrenza
(sia quella dei loro pari, sia quella dei vincitori
di competizioni precedenti che vogliono conservare le
posizioni acquisite). Ne consegue che, in questo contesto,
la lentezza è un peccato più grave dell’inaccuratezza.
Ma se si estende questa cultura oltre il mondo della
tecnologia e la si proclama valida anche per servizi
come quelli editoriali, i risultati non sono quasi mai
soddisfacenti. Eppure è proprio quello che è successo,
spesso, nei primi anni di Internet.
I portali e i servizi giornalistici che sono stati
progettati dai tecnologi o, comunque, sulla base delle
specifiche dei software di produzione e distribuzione
di contenuti in Rete più che in relazione al servizio
da proporre al pubblico, sono falliti uno dopo l’altro.
Chi li metteva in piedi in fretta e furia, in Italia
e all’estero, pensandoli erroneamente soprattutto come
soluzioni informatiche e dimenticando la loro qualità
di «beni esperienza» (il cui valore si scopre solo dopo
averli usati e che dunque non si usano se non in base
a una memoria positiva) ha finito col trascurare la
qualità dell’informazione proposta al pubblico, pagare
troppo profumatamente i consulenti tecnici e svenarsi
in campagne pubblicitarie milionarie, con risultati
disastrosi.
La storia del giornalismo online è zeppa di questo
genere di problemi. Tanto che per alcuni ha finito col
coincidere con essi. In molti casi, per esempio, le
strategie delle grandi compagnie dei media sono partite
dallo strumento e non dal progetto. Fin troppo facile
collegare anche a questo genere di errori le uscite
di scena (alla metà del 2002) di personaggi eccellenti
come Jean-Marie Messier, già chief executive officer
di Vivendi, di Robert Pittman, già chief operating officer
di Aol-Time Warner e di Thomas Middelhoff già chief
executive officer di Bertelsmann. Ne dà conto il recentissimo
libro di John Motavalli, Bamboozled at the revolution:
una summa persino imbarazzante di episodi che dimostrano
come i sistemi decisionali di alcune delle maggiori
compagnie media del mondo, di fronte a Internet, si
siano lasciati dominare dal problema di conquistare
velocemente spazio online più che dalla creazione di
un vero progetto per la Rete. Emblematica, per Motavalli,
la storia del rapporto tra Gerald Levin, già chief executive
officer di Time Warner, e i media digitali: una storia
frenetica che comincia nel 1993, con l’insuccesso di
una tv digitale interattiva e che prosegue con l’agonia
infinita del portale Pathfinder (con buchi per miliardi
di dollari). Intanto, siti come quelli di Time e Fortune
sperimentavano servizi molto apprezzati dal pubblico
ma poco finanziati dall’azienda (non suona familiare
anche a molti giornalisti italiani?). Ma la parte peggiore
arriva nel finale della storia, quando Levin, alla ricerca
disperata di una soluzione per portare Time Warner online,
vende tutto il gruppo ad Aol, proprio al picco della
crescita speculativa dei titoli internettiani in borsa,
bruciando questa volta non decine ma centinaia di miliardi.
È fin troppo facile parlare ora nei termini usati da
Motavalli di scelte che, nel momento in cui venivano
operate, sembravano a molti commentatori più coraggiose
che avventate. Ma sta di fatto che i più grandi successi
editoriali in Rete non sono mai arrivati da chi ha pensato
a Internet come a un nuovo territorio da conquistare
in gran fretta: in fondo, David Filo e Jerry Yang, hanno
prima creato un’utile (e allora unica) guida ai siti
Web e poi hanno fondato Yahoo! (che ha incontrato problemi
in borsa, come tutte le dot-com, ma non ha mai smesso
di dimostrarsi estremamente utile al suo pubblico e
ha così potuto trovare sempre la strada per uscire dai
guai). Insomma: mentre la velocità, nella tecnologia,
appare come un elemento strategico fondamentale, nell’editoria
non lo è necessariamente. Più importante è la qualità
del contenuto e del modo di presentarlo. E la continuità
con la quale si garantisce tale qualità.
Certo, questo non significa che si debba evitare la
sperimentazione dei nuovi linguaggi giornalistici che
la tecnologia consente di utilizzare. Il problema non
è quello di rifiutare per esempio le dirette “informative”
giornalisticamente disintermediate come quelle che,
da Honolulu a Parigi, danno conto del traffico automobilistico
o scrutano le strade cittadine con alcune webcam costantemente
connesse alla Rete. La cronaca bianca e quella nera
si possono solo arricchire dai filmati online che informano
sulla coda al ristorante preferito, sulla quantità di
gente che si trova nella farmacia aperta più vicina,
sulla vita al campus dell’università dell’Oregon o sulla
scena dello scippo ripresa dalla webcam installata sulla
strada di fronte. E neppure il racconto multimediale
di una battaglia in Ruanda, non proprio avvenuta ma
ricostruita sulla base di fatti e immagini vere e dunque
giornalisticamente iperintermediata. Il problema sorge
quando la concezione del tempo alterata dall’eccesso
di velocità produce modelli di business per i quali
i portali sono fenomeni tecnologici più che editoriali
e nei quali dunque ai contenuti viene riservato un budget
molto limitato rispetto all’insieme dell’investimento.
Questo non è solo frustrante per i giornalisti o i content
provider che se ne occupano: diventa purtroppo frustrante
anche per il pubblico che in breve tempo si stanca di
prodotti nati stanchi. Il rischio in quei casi, non
è l’eliminazione della mediazione giornalistica, ma
la virtualizzazione del tempo dell’informazione fino
alla sua trasformazione in puro spettacolo, con una
tendenza alla sua completa commercializzazione priva
di spirito di servizio informativo. Se al contrario
non è la tecnologia ma il progetto editoriale a tenere
in piedi l’iniziativa, il successo prima o poi arriva:
commisurato all’intelligenza dell’impegno editoriale
intrapreso. I dati sull’afflusso di pubblico ai siti
informativi che le società di ricerca registrano in
questo 2002 lo confermano.
- La dinamica del tempo nei nuovi media. Il costante
presente di Internet
È decisamente ironico: proprio nel momento in cui i
media italiani si sono disamorati di Internet, il pubblico
ha cominciato a dedicare alla Rete un’attenzione quantitativamente
e qualitativamente senza precedenti. I due fenomeni
hanno genesi e profondità diverse: il primo è passeggero,
il secondo, molto più stabile. Il che è destinato a
condurre a una situazione tuttora poco prevedibile.
Sta di fatto che se il valore economico del giornalismo
online resta ancora tutto da scoprire, il valore d’uso
della Rete per il pubblico e per i giornalisti è ormai
completamente dimostrato. Ogni giorno, gli italiani
passano 150 milioni di minuti online: si scambiano posta,
prevalentemente, cercano siti, fanno operazioni bancarie
e prenotano viaggi, ma non mancano di consultare i servizi
di informazione. Anzi, il successo di pubblico di siti
giornalistici come quello de «La Repubblica», del «Corriere
della Sera», de «La Stampa» e de «Il Sole 24 ore» si
misura ormai nell’ordine dei milioni di pagine consultate
al giorno. La crescita dei lettori di giornali online
ormai supera quella di coloro che accedono alla Rete
nei paesi più sviluppati, secondo i dati forniti da
comScore Media Metrix. E del resto in Europa, dicono
le statistiche della Forrester Research, 21 milioni
di persone leggono regolarmente il giornale in Rete:
complessivamente si tratta dell’8 per cento della popolazione,
ma la percentuale è già superiore in Svezia, Italia
e Germania. L’Italia, paese che non cessa di lamentare
il basso numero di lettori di giornali di carta, è invece
superiore alla media europea in quanto ad accesso all’informazione
in Rete: qui ben l’11 per cento della popolazione legge
il giornale online. Dopo lo svedese «Aftonbladet», l’italiano
«La Repubblica» è il giornale che sperimenta la maggiore
proporzione in Europa di lettori che accedono sia all’edizione
cartacea che a quella online del giornale: il 20 per
cento. E senza la temuta cannibalizzazione: segno che
(a differenza di quanto pensavano gli editori) i lettori
capiscono perfettamente che si tratta di due prodotti
ben diversi (infatti, come controprova, non hanno decretato
un successo clamoroso per la vendita online dell’edizione
in formato elettronico del giornale che sono abituati
a comprare in versione cartacea ogni mattina in edicola).
Internet è dunque entrata nella vita quotidiana degli
italiani. E vale la pena di indagarne le conseguenze.
Perché la Rete ha già modificato in profondità il mestiere
dei giornalisti e non solo di quelli che lavorano per
pubblicare sul Web. Se i postumi della sbornia speculativa
impediscono ai più di fare progetti impegnativi che
riguardino il giornalismo online, prima o poi si tornerà
a prestare attenzione al tema. E allora, se invece di
assumere anche a livello editoriale il tempo della tecnologia
si definirà il tempo dell’editoria in funzione del servizio
da proporre al pubblico, si arriverà poter cercare nuove
espressioni giornalistiche e gradi di libertà superiori
a quelli che l’epoca dei mass media poteva concedere.
Internet, infatti, può trasformare completamente il
tempo del giornalista: da variabile esogena, può farla
diventare una dimensione scelta dal giornalista e dal
suo pubblico, magari in funzione dei fatti che il giornalismo
deve descrivere (il che sarebbe un bel passo avanti
per la qualità del servizio). Questo dipende da alcuni
caratteri tipici, e dimostrati, dell’accesso al giornalismo
online: 1. simultaneità di accesso alle diverse periodicità
giornalistiche; 2. revisione del rapporto contenitori-contenuti;
3. personalizzazione della fruizione delle news.
Su Internet si vive in un costante presente. Il pezzo
del mensile, quello del settimanale e quello dell’agenzia
si vedono uno accanto all’altro. Come del resto sono
uno accanto all’altro i pezzi d’archivio del Corriere
e gli ultimi telegiornali de La Sette. Questa vicinanza
risulta in una insipida giustapposizione, fino a che
le redazioni considerano i pezzi andati online come
un sottoprodotto della loro attività principale: ma
il pubblico, sempre più interessato ai giornali online,
sta guidando la loro trasformazione in servizi dal carattere
autonomo e coerente con le sue specificità. Il flusso
di notizie è continuo, ma l’archivio è sempre disponibile.
Il presente e il passato sono contemporaneamente online.
Non solo avviene che il pezzo approfondito e la notizia
secca siano accessibili nello stesso momento, ma succede
anche che le varie testate e i diversi servizi che esse
dedicano agli stessi argomenti siano facilmente confrontabili:
i contenitori tradizionali sono inesorabilmente saltati
dai motori di ricerca, come Moreover e Presstoday, che
riaggregano i contenuti a seconda delle curiosità dei
lettori. Lo stesso effetto risulta dai servizi di personalizzazione,
agenti elettronici o menu di feed di notizie che gli
utenti selezionano per riceverne i titoli su un’unica
pagina: nate dall’esigenza di combattere l’information
overload, queste soluzioni sono divenute in pratica
dei nuovi contenitori che rimandano solo successivamente
ai giornali che originariamente hanno pubblicato gli
articoli. Internet diventa così una sorta di mega-medium
che rende i contenuti accessibili in molti modi e con
molte forme narrative.
Il giornalismo onnimediale che deriva da tutto questo,
dunque, non è scandito dai tempi di uscita in edicola
o in tv, è costantemente accessibile, dunque si deve
proporre come costantemente aggiornato: con l’ultima
notizia secca come con l’ultimo approfondimento che
vale la pena di dedicare a un argomento. Se non lo fa
un giornale, il pubblico lo troverà fatto da un altro
giornale. La liberazione dalla periodicità editoriale
dei mass media e il nuovo ritmo del costante presente
vissuto dal pubblico che accede online all’informazione
giornalistica, consentono ai giornalisti di ridefinire
il proprio rapporto con il tempo, di prenderne possesso
e di usarlo come uno strumento a loro disposizione invece
che come un dato di fatto.
La ricerca giornalistica dovrebbe trarne vantaggio.
Ne può infatti emergere un rapporto con il tempo più
libero e profondo, simile a quello degli storici alla
Fernand Braudel, che scelgono la durata di riferimento
per la loro narrazione in base alle qualità dei fenomeni
sociali che descrivono. Braudel, maestro degli storici
del Novecento, ha proposto di trattare il tempo come
un insieme di tre durate, corrispondenti a tre dimensioni
dei fenomeni sociali: la lunga durata, cioè il tempo
dei fenomeni strutturali, geografici, ecologici; la
moda, il ciclo economico o la congiuntura culturale;
l'avvenimento, il fatto che si conclude in se stesso.
E la sua analisi va nella direzione di raccogliere i
fatti e le teorie che più sono coerenti per rispondere
ai problemi posti dalle diverse situazioni che si manifestano
nelle diverse durate e nelle diverse dimensioni del
sociale. Jean-Noël Jeanneney, nel suo recente “L’Historie
va-t-elle plus vite?” offre il suo supporto a questa
concezione: sostenendo che mentre la velocità della
tecnologia e dell’economia inducono a credere che la
storia abbia subito una brusca accelerazione, nella
realtà fenomeni che vengono da lontano continuano a
modellare il presente e a pesare sul futuro. E se non
vengono percepiti, l’analisi del presente e l’immagine
del futuro ne risultano distorte.
Per i giornali si apre un’epoca caratterizzata dalla
libertà di approfondire le notizie, di scegliere il
servizio da promettere al pubblico e di stabilire le
regole che si impegnano a rispettare: non è il mezzo
che li guida in questo percorso ma la loro identità.
Perché non è certo la quantità di informazione che
manca. L’unica medicina contro l’information overload
è il servizio giornalistico “facile da usare” ma non
per questo meno approfondito: un servizio che si proponga
come personalizzabile, costantemente aggiornato su ogni
argomento, con un archivio facilmente accessibile per
una fruizione legata più al tempo dell’utente che a
quello del produttore.
- Il tempo è denaro? Oppure il tempo è vita? Il valore
d’uso di Internet
Alla fine la conquista di questa saggezza non potrà
che discendere da un’innovazione culturale, forse addirittura
etica, riguardante la concezione del tempo che potrebbe
emergere nel lungo periodo dall’incontro tra giornalismo
e nuovi media. Un recupero della cultura tipica della
tradizione internettiana potrebbe in questo senso essere
istruttiva: la cultura originale dell’accademia americana
dalla quale la Rete ha avuto origine, la cultura della
ricerca condivisa, del tempo online inteso come parte
della vita e non come puro business potrebbe rimettere
con i piedi per terra l’editoria online.
In effetti molti malintesi sui progetti editoriali
per Internet si sono sviluppati intorno a una concezione
ben poco internettiana del tempo, simile a quella insegnata
da Benjamin Franklin nel suo Advice to a Young Tradesman
del 1748: «Il tempo è denaro». Un punto di riferimento
concettuale chiaramente riduttivo che ha prodotto concetti
editoriali riduttivi. Se, invece, il costante presente
della Rete parte dalla quotidianità della vita online,
dal valore d’uso di Internet, ciò che vi si pubblica
entra a far parte di un ecosistema più equilibrato e
alla lunga più sensato dell’information overload provocato
dalla foga pubblicatoria di chi cerca solo di moltiplicare
le pagine disponibili per moltiplicare gli spazi vendibili,
riuscendo soltanto a svalutare i listini delle inserzioni
pubblicitarie.
In realtà, al di là del crescente numero di visite
ai siti Web dei giornali (che peraltro non sono ancora
abbastanza apprezzati dagli editori in quanto non producono
un grande fatturato), le migliori applicazioni di Internet
al giornalismo (per esperienza comune) si trovano nel
valore d’uso della Rete per migliorare la vita quotidiana
dei giornalisti. E questo si è già tradotto (chiunque
lo può confermare) in un miglioramento strutturale del
loro lavoro, primo passo di una riorganizzazione profonda
del processo di produzione giornalistica. La mail, gigantesco
passo avanti nell’efficienza delle comunicazioni, la
ricerca di notizie, storie e confronti via Web, la consultazione
dell’enorme, facilissimo, archivio di articoli, studi
e informazioni enciclopediche della Rete: sono solo
alcune delle pratiche divenute in breve tempo quotidianità
dei giornalisti, sia degli scettici sia degli entusiasti
della pubblicazione sul Web. Pratiche rese tanto più
popolari quanto più facile e gratuita è la pubblicazione
dei giornali online: il che dovrebbe fare riflettere
sul ritorno economico e qualitativo della pubblicazione
online. Come nella ricerca accademica si pubblica gratuitamente
per favorire la ricerca di tutti, così di fatto è avvenuto
nel giornalismo: il che ne ha migliorato la produttività.
Ma il sistema funziona se tutti gli utenti portano il
loro contributo: un tempo si parlava di shareware, poi
si è parlato di peer-to-peer. In realtà si tratta sempre
della condivisione del sapere.
Il tanto ricercato modello di business della pubblicazione
giornalistica in Rete ha dunque un punto di partenza
che è sotto gli occhi di tutti: è nel valore d’uso di
Internet che migliora la produttività del tempo del
giornalista. Un fenomeno che peraltro non è ancora gestito
con sufficiente progettualità. E ancora una volta questo
produce rischi importanti quanto le opportunità.
A questo proposito, tecnicisticamente, molti hanno
parlato di Internet come di uno strumento capace di
liberare il tempo del giornalista dalla costrizione
della redazione tradizionale e dell’avvento di un tempo
di lavoro più flessibile. In questo caso, ovviamente,
si tende a sopravvalutare lo strumento e a sottovalutare
il fatto che la vita dei giornalisti è sempre stata
più flessibile di quella della maggior parte degli altri
impiegati (delle aziende editoriali e non). Del resto,
Internet non sostituisce l’intensità organizzativa e
creativa degli altri “media” tradizionali, come le riunioni
mattutine e gli incontri casuali al bar. Semplicemente
si aggiunge a questi come una dimensione comunicativa
in più.
In realtà, Internet è uno strumento che offre enormi
opportunità per una riorganizzazione generale del lavoro
giornalistico. Può dare una spinta significativa alla
modernizzazione del processo redazionale in senso allargato,
riorientando le relazioni tra fonti, fornitori, collaboratori,
pubblico: può facilitare la gestione dei freelance,
rendere più efficiente la produzione di infografiche
e l’acquisto delle foto, valorizzare l’archivio, migliorare
la trasmissione di cultura redazionale, agevolare l’accesso
a corsi di aggiornamento, semplificare la gestione dei
viaggi e delle missioni, alimentare la creatività dei
singoli e del gruppo, favorire i collegamenti con il
dibattito internazionale, e così via. Se progettato
in questo senso, il contributo di Internet può essere
determinante nel coltivare le motivazioni intellettuali
dei giornalisti, la cui curiosità e creatività sono
ancora tra i beni più preziosi delle loro testate. Eppure
Internet non ha ancora dispiegato tutte le sue potenzialità
da questo punto di vista. È la conseguenza della lentezza
con la quale le abitudini radicate si modificano. Ma
anche di qualche cosa di intrinseco alla Rete, che ambiguamente
libera e imprigiona. La vischiosità dei modi di lavorare
è un fatto storicamente ben noto. Le nuove tecnologie
molto spesso si inseriscono nei processi produttivi
in un primo momento senza modificarli ma limitandosi
a renderli un poco più efficienti: solo in seguito i
processi vengono completamente reingegnerizzati in base
alle opportunità organizzative offerte dalla tecnologia.
E lo stesso avviene nel giornalismo. Ci vorrà tempo
perché la Rete dispieghi i suoi effetti. Anche perché
non offre solo possibilità liberatorie, ma anche nuove
costrizioni. E il suo uso più produttivo richiede un
insieme di prese di coscienza che riguardano il tempo,
la qualità della vita, le fonti della creatività, che
sono ancora piuttosto poco presenti al management delle
risorse umane nei giornali o, nei casi più illuminati,
sono comunque considerate poco prioritarie.
Il dibattito peraltro è avviato da tempo. Perché i
cambiamenti, gestiti o più spesso non progettati, appaiono
comunque inarrestabili. E, appunto, ambigui. Lo conferma
Pekka Himanen, nel suo L’etica hacker e lo spirito dell’età
dell’informazione, quando si occupa di spiegare la distanza
che c’è ancora tra la realtà e le potenzialità liberatorie
delle nuove tecnologie della comunicazione: «Fino a
oggi l’organizzazione del lavoro non è cambiata molto
nell’economia dell’informazione. Pochi sono in grado
di derogare dalle ore lavorative rigidamente regolari,
malgrado il fatto che le nuove tecnologie dell’informazione
non soltanto comprimono il tempo, ma lo rendono anche
più flessibile. Con tecnologie come la Rete e il telefono
cellulare, si può lavorare dove e quando si vuole. Ma
questa nuova flessibilità non conduce automaticamente
a un’organizzazione del tempo più olistica. Infatti,
la tendenza dominante nell’economia dell’informazione
sembra essere rivolta verso una flessibilità che porta
al rafforzamento della centralità del lavoro. Più spesso
che mai i professionisti dell’informazione usano la
flessibilità per rendere il tempo di svago più disponibile
per brevi intervalli di lavoro, piuttosto che il contrario.
In pratica, mentre il blocco di tempo riservato al lavoro
è ancora incentrato su una giornata lavorativa di (almeno)
otto ore, il tempo libero viene interrotto da intervalli
di lavoro: mezz’ora di televisione, mezz’ora di e.mail,
mezz’ora fuori con i bambini, inframmezzate da un paio
di telefonate di lavoro con il cellulare». Esperienza
comune. Troppo comune.
Robert Reich, già ministro del Lavoro di Bill Clinton,
ne L’infelicità del successo, spiega il fenomeno ricordando
la concorrenzialità sempre più frenetica dell’economia
della Rete: «L’economia emergente offre una scelta senza
precedenti di grandi opportunità, prodotti favolosi,
investimenti vantaggiosi e ottimi posti di lavoro per
le persone con il talento e l’abilità giusti. Mai nella
storia umana tanti individui avevano avuto accesso a
tante possibilità così facilmente. La tecnologia è il
motore. Nelle comunicazioni, nei trasporti e nell’elaborazione
dati le nuove tecnologie che hanno acquistato slancio
negli anni Ottanta e Novanta oggi corrono a velocità
sorprendenti. Grazie ad esse è più facile, da qualsiasi
luogo, trovare offerte migliori, e passare immediatamente
ad opportunità anche più vantaggiose. Queste tecnologie
accentuano fortemente la concorrenza tra venditori,
il che a sua volta provoca un’incredibile ondata d’innovazione.
per sopravvivere, tutte le organizzazioni devono migliorare
in modo drastico e continuo: tagliare i costi, aggiungere
valore, creare nuovi prodotti. Il risultato di questo
tumulto è una produttività più elevata: prodotti e servizi
di ogni tipo migliori, più rapidi, a costi ridotti.
A livello economico tutto ciò va a nostro grande e inequivocabile
vantaggio. Ma quel che implica per il resto della nostra
vita - per tutti quegli aspetti che dipendono dalla
solidità, dalla continuità e dalla stabilità dei rapporti
- è estremamente problematico. Più è facile per noi
come clienti passare a qualcosa di meglio, più noi come
venditori dobbiamo darci da fare per conservare ogni
cliente, afferrare ogni opportunità, aggiudicarci ogni
contratto. Il risultato è che le nostre vite sono sempre
più frenetiche».
E conclude Himanen: «Se usiamo la nuova tecnologia
per favorire la centralità del lavoro» arriviamo «facilmente
a una dissoluzione del confine tra lavoro e tempo libero
incentrata sul lavoro». Ma l’etica hacker (che nell’accezione
di Himanen non sono gli scassinatori di computer altrui
ma esteti della programmazione al computer) insegna
che esiste una dimensione diversa del rapporto con le
tecnologie. «Gli hacker ottimizzano il tempo per avere
più spazio per il divertimento: Linus Torvalds (maestro
di hackerismo, ndr.) pensa che, mentre sta sviluppando
Linux, ci debba sempre essere tempo per il biliardo
o per sperimentare programmi che non abbiano scopi immediati».
E la produttività ne viene alimentata non compressa.
«La fonte più importante di produttività dell’economia
dell’informazione è la creatività, e non è possibile
creare cose interessanti in condizioni di fretta costante
o con un orario regolato dalle nove alle cinque». Perché,
nell’economia dell’informazione, quando è la qualità
e non la quantità a misurare il successo, non è vero
che il tempo è denaro.
Se si fa tesoro di questa tradizione culturale, se
la produttività che conta è quella della qualità creativa
del lavoro dei giornalisti, allora Internet si giustifica
abbondantemente dal punto di vista economico e pubblicare
online diventa un contributo all’ecosistema dell’informazione.
Anche perché Internet si dimostra un supporto e un arricchimento,
non un’alternativa agli altri media e ai loro modelli
di business. A questo livello, il compito degli editori
è quello di coltivare la produttività creativa degli
autori, dei quali peraltro non possiedono né il tempo
né la vita.
A questo punto, fallito il progetto generale degli
editori di fare tanti soldi con la quotazione in borsa
dei loro prodotti online, il problema non è più quello
di inventare un modo per costringere il pubblico a pagare
per i contenuti pubblicati in Rete: il problema è quello
di far arrivare un flusso di denaro sufficiente al dignitoso
sostentamento dei giornalisti e di coltivare l’ecosistema
informativo nel quale si inserisce il loro lavoro: fatto
di professionisti che scrivono per testate importanti,
di amatori che pubblicano il loro weblog, di utenti
che reagiscono ai sondaggi o ai forum, di comunità che
si scambiano informazioni nei newsgroup specializzati.
E casomai a tutto questo si aggiungono i contenuti tanto
preziosi che si possono proporre a pagamento.
In un simile ecosistema, il processo produttivo dei
giornali è riorganizzato, i giornalisti possono apparire
più competenti e ai più competenti si apre al strada
del giornalismo, acquisisce più senso il pedaggio che
gli editori fanno o non fanno pagare per l’accesso ai
contenuti degli autori che tengono sotto contratto e
il pubblico non è più schiacciato dalla parte sbagliata
del sistema dei media: quella di chi, passivamente,
paga per tutti. Intanto, nuovi compiti, peraltro remunerativi,
si affacciano all’orizzonte editoriale: critica delle
fonti, segnalazione delle novità, confronto delle informazioni
di diversa origine sullo stesso argomento, servizi di
distribuzione personalizzata dell’informazione e così
via.
Il futuro ecosistema dell’informazione parte da qui:
una ridefinizione del tempo giornalistico adeguata ai
fatti più che ai tempi della produzione; una ridefinizione
del rapporto degli editori con Internet che parta dalla
ricerca di una maggiore produttività dei giornalisti,
più che dalla concettualizzazione della Rete come un
semplice medium, e che arrivi a una reingegnerizzazione
del processo di produzione giornalistica per cogliere
le opportunità offerte dallo strumento; una ridefinizione
dei compiti degli editori, meno orientata al possesso
e allo sfruttamento di canali di distribuzione e più
concentrata sul servizio al pubblico, in termini, appunto,
di personalizzazione e agevolazione dell’accesso alle
fonti dell’informazione e alle mediazioni giornalistiche.
Tutto questo può apparire fuori tempo, in un periodo
di recessione. Ma è invece la crisi il momento in cui
le forme di riorganizzazione profonda hanno più ragione
di essere. Il recente disinteresse dei media nei confronti
della Rete è una delle conseguenze della sbornia speculativa
di qualche tempo fa: gli editori si sono convinti che
Internet non sia in grado di sostenere economicamente
lo sforzo di produrre i servizi giornalistici cui consente
di accedere. E se nel periodo, devastante, della bolla
c’era almeno la chimera dell’arricchimento finanziario,
oggi non sembra esserci né quello né un modello di business
provato in grado di produrre fatturato. D’altra parte,
il valore d’uso della Rete è ormai percepito massicciamente
e sperimentato quotidianamente dalla popolazione. Nel
2002, anche in Italia, l’uso della Rete non è più limitato
a collegamenti occasionali, effettuati più che altro
per curiosità: è sempre più spesso un’abitudine e una
necessità. E i milioni di pagine dei quotidiani storici
italiani viste online ogni giorno non sono di poco conto,
solo perché non producono un fatturato gigantesco. Si
tratta di contatti di tutto rispetto con il pubblico.
Ed è profondamente ingiusto e sbagliato che le redazioni
che se ne occupano siano poco valutate all’interno dell’organizzazione
editoriale cui fanno capo e che i giornalisti che ne
fanno parte si sentano spesso tenuti in una considerazione
minore rispetto ai colleghi della carta stampata o del
notiziario principale.
In realtà, le opportunità offerte da Internet per i
giornalisti italiani restano ancora largamente inesplorate.
Forse perché la fretta tecnologica, l’avidità finanziaria
e la concezione limitativa di Internet come medium hanno
indirizzato l’attenzione dalla parte sbagliata. L’occasione
storica di rinnovare il panorama giornalistico italiano
chiuso e scarsamente concorrenziale sembra essere sfuggita.
Ma non è che un fatto passeggero. Milioni di persone
che passano sempre più tempo davanti a un computer,
sono una popolazione rilevante dal punto di vista economico,
critica dal punto di vista culturale, in grado di dare
un senso preciso allo sforzo di informare in modo innovativo.
È il momento di pensare alla prossima fase della grande
trasformazione in atto. E di darsi dei punti di riferimento
concettuali che possano guidarne la progettazione.
========
Riferimenti:
Si ringrazia «Problemi dell’Informazione» e il suo direttore
Angelo Agostini, che ha consentito in questo manuale la ripubblicazione
di alcuni testi dell’autore usciti sulla rivista nel corso del 2002.
Per quanto riguarda l’evoluzione della piattaforma digitale:
D. A. Norman, The Invisible Computer. Why Good Products Can Fail, the
Personal Computer is so Complex and Information Appliances are the solution,
The Mit Press, Cambridge Massachusetts, 1998.
A. Penzias, Harmony. Business, technology and life after paperwork, HarperCollins,
New York, 1995
B. Giussani, Roam. Making Sense of the Wireless Internet, Random House,
New York, 2001
F. Carlini, Divergenze digitali. Conflitti, soggetti e tecnologie della
terza Internet, Manifestolibri, Roma, 2002.
C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della net economy, Einaudi,
Torino, 2002.
Per quanto riguarda il dibattito sul nuovo giornalismo, i rapporti tra
Internet e gli altri media e le nuove periodicità: http://poynteronline.org/resource_center,
http://www.ojr.org/ojr/page_one/index.php,
http://www.well.com/user/jd/webjournalism.html,
http://www.well.com/user/jd/barlow.html,
http://www.ajr.org
Michael Wolff, Burn Rate, Touchstone, 1998; Vivek Ranadivé, The
power of now. Dalla nuova economia all’economia a tempo zero, Olivares
2000
Manuel Castells, The Information Age: Economy, Society and Culture, Blackwell
Publishers 1996.
John Motavalli, Bamboozled at the revolution, Viking 2002.
Fernand Braudel, Scritti sulla storia, Mondadori 1969; Jean-Noël
Jeanneney, L’Historie va-t-elle plus vite?, Gallimard, 2001
Pekka Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età
dell’informazione, Feltrinelli 2001
Robert Reich, L’infelicità del successo, Fazi 2001
La discussione sulla responsabilità dei giornalisti, il loro nuovo
ruolo nella società della conoscenza, il ruolo degli editori e
di coloro che aprono notiziari pur non pensandosi come editori, i nuovi
criteri di verità e l’autoreferenzialità dei media,
l’information overload, la credibilità dell’informazione
via Internet, l’etica del lavoro giornalistico all’epoca del
Web, i temi collegati del diritto d’autore, della privacy e della
sorveglianza sono decisivi. E a questi saranno dedicati altri approfondimenti
nelle prossime edizioni di questo manuale. Chi voglia può però
proporre un contributo, magari dopo aver visitato questi siti:
Etica - http://www.duke.edu/~wgrobin/ethics/sum02
Credibilità - http://www.webcredibility.org
Diritto e Internet - http://cyberlaw.stanford.edu
e http://cyberlaw.stanford.edu/lessig
Manipolazione e tecnologia - http://captology.stanford.edu
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