5.1. - ECONOMIA DEL
GIORNALISMO ONLINE
- Il dilemma del bene esperienza
«Gli economisti definiscono bene esperienza il bene del
quale i consumatori possono giudicare il valore solo dopo
averlo consumato». È la classica definizione, riportata
anche da Carl Shapiro e Hal Varian nel loro «Information
rules».
Non è dunque facile vendere un bene esperienza. Tutti
i beni sono così al momento in cui vengono lanciati
per la prima volta sul mercato. Ma i giornali lo sono
tutti i giorni, o meglio, a tutte le edizioni.
Come faccio a sapere se la copia di oggi del «Corriere
della Sera» vale per me 90 centesimi? Devo leggerlo
e poi lo saprò. E lo stesso è vero nel caso dei giornali
online: una visita vale il tempo che le dedico? Devo
inviare il browser sul giornale, leggere e poi lo saprò.
Il punto di riferimento del marketing di un bene esperienza
come il giornale è dunque la testata. L’obiettivo è
abituare il lettore ad avere fiducia in una testata,
a pensare che sotto quella testata ci saranno probabilmente
contenuti che vale la pena di consultare.
Il centro del marketing del giornale, online od offline,
è sempre mantenere quello che si promettere. Si deve
imparare a dichiarare che cosa si fa, quale servizio
si offre, e poi si deve realizzare.
Una quantità enorme di siti hanno promesso più di quanto
potevano umanamente mantenere. Il boom speculativo del
periodo 1998-2000 è stato da questo punto di vista un
disastro. Anche perché tutto l’insieme delle pubblicazioni
online ha perso terreno sul piano finanziario e pubblicitario.
Non invece dal punto di vista del numero dei lettori.
E da questo dato occorre ripartire.
Il popolo della Rete è ormai arrivato a 655 milioni
di persone. Continua a crescere e a consumare più banda
di trasmissione. La quantità di bit che viaggiano in
Rete aumenta. Non solo perché aumentano gli utenti ma
anche perché fanno cose più complesse.
La società di ricerche Idc prevede che il volume del
traffico Internet generato dagli utenti finali nel mondo
raddoppierà ogni anno per i prossimi cinque anni. Oggi
ogni giorno viaggiano in Rete 180 di petabit (milioni
di miliardi di bit). Nel 2007 viaggeranno 5.175 milioni
di miliardi di bit al giorno.
Per quell’anno, dicono all’Idc, la quantità di dati
contenuta nell’intera biblioteca del Congresso americano
si sposterà in Rete 64 mila volte al giorno. E i consumatori
conteranno per il 60 per cento di questo traffico, mentre
le aziende ne genereranno il restante 40 per cento.
Il numero degli utenti dei giornali online è in costante
aumento. In Gran Bretagna il sito della «Bbc» attrae
regolarmente due milioni di visitatori unici al mese.
Il «Guardian» ha raggiunto un milione di visitatori
unici al mese. E ci sono mezzo milione di visitatori
dalla Gran Bretagna per «Cnn.com», «Ft.com» e «Telegraph.co.uk».
Anche in Italia, i giornali online stanno aumentando
le pagine visitate costantemente. E la qualità del comportamento
dei visitatori sta migliorando nel tempo: più selettivi,
più costanti, più attenti. È il migliore dei mondi possibili,
salvo che non si sa bene come far pagare il servizio.
Ma è impossibile, oggettivamente, pensare che un giornale
la cui testata abbia dimostrato nel tempo una buona
credibilità verso i lettori, abbia accresciuto la sua
notorietà nel pubblico, abbia dimostrato di avere una
squadra di giornalisti e collaboratori solida e capace,
non riesca a trovare un modello di business tale da
stare in piedi. Certo, non è detto che questo avvenga
in ogni caso e per sempre: ma almeno per un periodo
adatto a fare il discorso per il quale è stato progettato.
- Gratis, abbonamento, pay per use, pubblicità
I modelli di business continuano a costituire un rebus
per i contenuti pubblicati in Rete. Visto che le compagnie
telefoniche si rifiutano di pagare una quota del traffico
generato dalla consultazione dei siti di contenuti (anche
se in fondo sarebbe giusto lo facessero perché la gente
usa Internet anche per andare a usare i contenuti che
vi si trovano pubblicati), non resta che analizzare
il comportamento della pubblicità e dei lettori disposti
a pagare per i contenuti.
La pubblicità è un tema apparentemente semplice. Quando
il costo contatto è conveniente gli inserzionisti pubblicitari
pagano. Altrimenti no. Ma purtroppo non è solo così.
Anche la qualità del medium, la percezione che il pubblico
ha di quel medium, il fatto che il medium faccia parlare
di se e pesi nel dibattito, sono a loro volta elementi
che fanno scegliere per accettare o rifiutare un’opportunità
di investimento pubblicitario anche a parità di condizioni
per quanto riguarda il costo contatto.
E in effetti, il costo contatto di Internet è oggettivamente
bassissimo, oggi. Ma i pubblicitari sembrano convinti
che la Rete non sia più attraente come medium. Si ricrederanno
in futuro. Per ora non sembrano in procinto di cambiare
idea. E questo è un bene, da un certo punto di vista:
stimolano i produttori di contenuti a realizzare strumenti
informativi per i quali la gente abbia voglia di pagare.
I giornali si pagano in edicola: perché non dovrebbero
essere pagati anche in Rete?
Certo: non nella versione che si offre gratuitamente
(cercando gli inserzionisti pubblicitari). Si deve offrire
qualcosa di più. «Le Monde» ci riesce: una versione
è gratuita in Rete, un’altra a pagamento. «The Wall
Street Journal» ci riesce ancora di più: non esiste
una versione gratuita online, ma solo quella a pagamento.
Del resto, il quadro del mercato dei contenuti online
si va precisando. E arricchendo di dati.
La Online Publishers Association e la Comscore calcolano
che la spesa in contenuti a pagamento online in America
sia arrivata a 1,3 miliardi di dollari nel 2002.
Si tratta di un aumento del 95 per cento rispetto all’anno
precedente.
I contenuti a pagamento che hanno fatturato di più
sono stati i piccoli annunci, le informazioni economiche
e l’entertainment. I piccoli annunci hanno superato
le altre categorie nel corso del 2002. In totale le
tre categorie principali valgono il 63 per cento dell’intero
mercato. Il numero assoluto di consumatori che comprano
contenuti online è passato dai 10 milioni del 2001 ai
14,3 milioni del 2002.
Il modello di pagamento più popolare è l’abbonamento
annuale, che vale il 41 per cento del mercato. I micropagamenti,
da meno di 5 dollari, sono aumentati del 707 per cento
ma rappresentano ancora meno dell’1 per cento del mercato.
I siti che hanno fatturato di più con i contenuti nel
2002 in America sono stati:
1. Yahoo.com
2. Match.com
3. Real.com
4. Classmates.com
5. Wsj.com
Secondo Idc, poi, la spesa per contenuti online nel
mondo è arrivata a 50 miliardi di dollari nel 2002.
E la società di ricerche prevede che il mercato salirà
a 108 miliardi per il 2006.
Dunque, non è vero che i giornali online non possono
trovare fonti di reddito all’infuori della pubblicità.
Del resto, non sono solo le entrate dirette a contare:
si sa che il «New York Times» è riuscito ad aumentare
gli abbonamenti alla versione cartacea usando con successo
il servizio offerto sul sito in chiave di marketing.
E si sa che il «Washington Post» usando la Rete si è
riuscito a trasformare in una sorta di agenzia di notizie
multimediale per media diversi dal cartaceo e territori
diversi da quello di Washington. E «La Repubblica» in
Italia ha cominciato a vendere una versione online del
giornale. Mentre il supporto della piattaforma di K-solutions
per vendere il contenuto di un giornale online sta rendendo
questo tipo di progetti sempre più realizzabile.
In generale, chi usa un giornale online tende a mantenersi
fedele alla testata anche offline. Questo, almeno, è
il comportamento rilevato da uno studio della Online
Publishers Association: la ricerca ha consentito di
osservare che il 56 per cento degli utenti di un servizio
online impara a usare lo stesso servizio anche offline.
Cioè: chi scopre un giornale online, tende in una maggioranza
di casi ad acquistare anche la versione cartacea. Lo
studio conclude che l’attività online di una testata
aggiunge un valore significativo alla testata offline.
Certo, bisogna anche progettare i giornali online in
modo che incontrino le abitudini dei lettori. Se andando
in macchina al lavoro sentono la radio e se la sera
guardano la tv, è ormai chiaro che nelle ore d’ufficio
sono molto orientati a consultare Internet. E dunque
le notizie dei giornali vanno pubblicate in quella fascia
oraria con particolare attenzione e dedizione al target.
Lo ha dimostrato uno studio della Online Publishers
Association.
Sarebbe dunque sbagliato per qualunque giornale pensare
di non pubblicare la versione online. Sarebbe peraltro
sbagliato anche pubblicarla pensando di fare un guadagno
finanziario, di puntare tutto sulla pubblicità, di tagliare
i giornalisti in attesa di tempi migliori e di non progettare
servizi contenutistici a pagamento.
Ma c’è anche un guadagno sicuro della pubblicazione
online dei giornali in versione gratuita (intesa come
ampio sottoinsieme di quanto i giornali stessi potrebbero
pubblicare a pagamento): e si tratta del contributo
alla conoscenza dell’insieme dei giornalisti del mondo.
Non è una dichiarazione idealistica, ma un dato di fatto
molto pratico. La produttività dei giornalisti, la loro
capacità di produrre articoli di qualità, è nettamente
migliorata (nettamente!) da quando possono confrontarsi
online con il lavoro altrui. Leggono online i giornali
stranieri, confrontano le proprie notizie con quelle
pubblicate dagli altri, si informano meglio sul background
delle notizie... tutto questo è un miglioramento nella
qualità e nella produttività del sistema produttivo
giornalistico che è possibile solo se tutti danno il
loro contributo alla comunità giornalistica nel suo
complesso. I giornali che non abbiano una versione online,
per essere coerenti, non dovrebbero neppure andare a
leggere le informazioni che gli altri giornali pubblicano
online. Se invece lo fanno dimostrano che la pubblicazione
degli altri a loro serve: perché non pensano che ai
giornalisti degli altri giornali servirebbe leggere
anche il loro contributo alla conoscenza comune?
========
Riferimenti:
Carl Shapiro e Hal Varian, Information rules. Le regole dell’economia
dell’informazione, Etas, Milano, 1999.
Le fonti delle ricerche statistiche citate: http://www.comscore.com,
http://www.idc.com, http://www.nielsen-netratings.com,
http://www.nua.com, http://cyberatlas.internet.com,
http://www.online-publishers.org
|